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La razza e l’isola delle rose

27 Gennaio 2020 by federicabertolli Leave a Comment

Libro "Per questo ho vissuto" con una rosa
“Per questo ho vissuto”, libro autobiografico di Sami Modiano

Anche oggi Sami Modiano racconterà la sua testimonianza. Anche oggi si commuoverà come ogni volta che racconta dell’ultimo saluto alla sorella Lucia, come della promessa al padre prima di morire. Samuel Modiano è uno degli ultimi sopravvissuti alla Shoah, partito dall’Isola delle rose, com’era chiamata Rodi, per arrivare nell‘inferno di Birkenau in Polonia un mese dopo, nell’agosto del 1944.

Ho ascoltato diverse volte il suo doloroso racconto, durante le visite tra le rovine del campo di sterminio più organizzato e feroce della storia della disumanità: Auschwitz-Birkenau, dove famiglie intere di ebrei deportati arrivavano su vagoni per il bestiame direttamente alle porte delle camere a gas, per essere uccisi in massa e bruciati nei forni crematori, o direttamente all’aperto quando anche i forni in serie erano insufficienti per la quantità di corpi da incenerire.

Sami è tornato a Birkenau nel 2005, convinto dal suo amico e compagno Piero Terracina, per sciogliere finalmente il quesito più importante e doloroso di tutta la sua vita. Con i ragazzi ha capito profondamente che è riuscito a sopravvivere alla fame, al freddo, alla solitudine, alla disperazione, alla paura, alla follia, alla malattia, all’umiliazione e a quanto non ci potremo mai immaginare, unicamente per raccontare la sua testimonianza. Non a parole, con le lacrime.

In “Per questo ho vissuto”, autobiografia di una vita segnata da profondi dolori, condotta con umiltà e tenacia, si legge di un bambino che viveva in un’isola profumata, all’interno di una comunità pacifica che viveva da secoli insieme a turchi, italiani e greci. Rodi è stata conquistata nei secoli da Ateniesi, Persiani, Macedoni, Romani, Bizantini e fino al 1944 si trovava qui un’importante comunità ebraica proveniente dalla Spagna, convivevano insieme a quella turca, greca e italiana. Dopo le leggi razziali del 1938 le cose cambiarono e gli ebrei furono privati di diritti civili quali insegnare, lavorare in aziende, banche, assicurazioni, possedere terreni o fabbricati e molti altri, tra i quali per i bambini andare a scuola.

“Samuel Modiano, sei espulso dalla scuola” ecco come Sami ricorda quel giorno:
“Avevo otto anni e mezzo. L’anno scolastico era appena iniziato quando una mattina il maestro mi chiamò. Ero contento, perché mi ero preparato per l’interrogazione. Ero convinto che mi avesse chiamato per questo. Invece il maestro disse che ero stato espulso. Io non capii, rimasi senza parole. L’espulsione era una cosa molto grave e chiesi a bassa voce perché, per quale motivo, credendo di aver commesso qualcosa di sbagliato. […] Capendo il mio stato d’animo, mettendomi una mano sulla testa, lui mi disse di andare a casa stare tranquillo, che mio padre mi avrebbe spiegato il motivo di questa espulsione. […] Espulso…è la cosa più brutta che possa capitare a un bambino che studia e si comporta bene. Cosa avevo fatto di male? Avevo vergogna e paura di dirlo a mio padre. […] Con fatica lo dissi a mio padre. Sapeva che non avevo fatto niente di male e che mi avevano espulso per un motivo diverso. […] mi parlò della «razza», della «razza ebraica» e di Mussolini, che aveva fatto delle leggi in nome di questa «razza». Io gli dicevo di non vedere delle differenze con i miei compagni di classe, io ero uguale a loro, non mi sentivo diverso. Si parlava di razze di cani, razze di gatti…ma ero troppo piccolo per capire. […] È stato un dispiacere enorme, il mio primo impatto con la realtà. Fino a quel momento ero contento, libero, sereno, non mi sentivo diverso. […] Quel giorno ho perso la mia innocenza. Quella mattina mi ero svegliato come un bambino. La notte mi addormentai come un ebreo.“

Il concetto di razza nasce come giustificazione alla sottomissione dei popoli conquistati durante l’espansione coloniale. L’uomo bianco e la sua cultura si impone in molti territori del mondo, autoproclamandosi superiore e civilizzato, quindi in diritto di sfruttare le risorse naturali e le persone originarie di quelle terre. Gli antropologi del tempo studiarono le differenze fisiche, risultato dell’evoluzione naturale e classificarono le diverse «razze». L’antropologia moderna ha dimostrato attraverso numerosi studi genetici che parlare di razze non ha alcun valore scientifico: la specie umana è una. 

La voce «razza» sull’Enciclopedia Treccani si conclude così: “L’ONU condannò il razzismo con la Dichiarazione sulla razza dell’UNESCO (1950) e con una Convenzione del 1965 che definì discriminazione razziale ogni differenza, esclusione e restrizione dalla parità dei diritti in base a razza, colore della pelle e origini nazionali ed etniche. Nel 2000, il 21 marzo è stato proclamato giornata mondiale contro il razzismo.”

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Filed Under: Diritti Umani, Libri Tagged With: 27 gennaio, Auschwitz-Birkenau, Birkenau, campi di concentramento, diritti umani, fascismo, giornata della memoria, guerra, leggi razziali, Nazismo, razza, razzismo, Rodi, Sami Modiano, Shoah

Etica per un figlio: un libro illuminante

24 Dicembre 2019 by federicabertolli Leave a Comment

Fede legge un libro fuori, illuminata dal sole, con un albero sullo sfondo
Fede legge Etica per un figlio, di Fernando Savater

Un titolo pesante e un po’ respingente. Comprato forse un anno fa e abbandonato lì nel mucchio di libri da leggere. Consigliato da un amico, aspettava il suo momento, ed è arrivato questo autunno.

Arrivata alla fine ho deciso di condividere almeno le pagine a cui ho fatto le orecchie per me, per andarle a rileggere quando mi venisse in mente di rinfrescarmi le parole così chiare e semplici di Savater. I concetti e i valori di cui parla sono universali e mi ha sorpreso quanto siano elementari le sue riflessioni. Tanto elementari da risultare sconvolgenti, ve ne propongo alcune di seguito.

“Quando parlo di libertà mi riferisco a questo: […] Non dico che possiamo fare qualsiasi cosa vogliamo, ma neppure siamo obbligati a fare una cosa sola. Qui conviene stabilire un paio di punti fermi sulla libertà. Primo: non siamo liberi di scegliere quello che ci succede […], ma siamo liberi di rispondere a quello che ci succede in un modo o nell’altro (obbedire o ribellarci, essere prudenti o rischiare, vendicarci o rassegnarci, vestirci alla moda o travestirci da orsi, eccetera). Secondo: essere liberi di tentare di fare qualcosa, non ha niente a che vedere col riuscirci necessariamente. La libertà (che consiste nello scegliere tra possibilità) non s’identifica con l’onnipotenza. […] Se non conosco né me stesso né il mondo in cui vivo la mia libertà si scontrerà prima o poi contro la necessità. Ma, cosa importante, non per questo smetterò di essere libero… anche se mi scoccia.
Ma io sono sicuro che nessuno – proprio nessuno – crede davvero di non essere libero, nessuno accetta di funzionare come il cieco meccanismo di un orologio o come una termite. Siccome optare liberamente per certe cose in certe circostanze è molto difficile (entrare in una casa in fiamme per salvare un bambino, per esempio, o opporsi a un tiranno) allora è meglio dire che non c’è libertà per non dover riconoscere che si preferisce fare quello che è più facile: aspettare i pompieri o leccare le scarpe a chi ci schiavizza. Però nel fondo qualcosa non smette di dirci: Se tu avessi voluto…
In sintesi: a differenza di altri esseri, viventi o inanimati, noi uomini possiamo trovare soluzioni nuove e scegliere almeno parzialmente la nostra forma di vita. Possiamo optare per quello che ci sembra essere giusto, e cioè conveniente per noi, ed evitare quello che sembra farci del male o non convenirci. Ma siccome possiamo scegliere, possiamo anche sbagliarci, cosa che non succede ai castori, alle api o alle termiti. Perciò sembra meglio riflettere bene su quello che facciamo e cercare di acquisire un certo saper vivere che ci permetta di scegliere bene. Questo saper vivere, o arte di vivere se preferisci, è ciò che chiamiamo etica.”

Che cosa significa essere imbecille. “Lo sai qual è l’unico dovere che abbiamo nella vita? Quello di non essere imbecilli. Ma non ti credere, la parola imbecille è più sostanziosa di quello che sembra. Viene dal latino baculus, che significa bastone, e l’imbecille è chi ha bisogno del bastone per camminare. […] L’imbecille può essere agilissimo e saltare come una gazzella alle olimpiadi. Non si tratta di questo, perché è uno che non zoppica nei piedi, ma nell’animo: è il suo spirito che è debole e zappetto, anche se il suo corpo fa giravolte di prima classe.
Esistono vari tipi di imbecilli, a scelta:
a) Quello che crede di non volere nulla, dice che tutto gli è indifferente, e non fa altro che sbadigliare o dormicchiare anche se tiene gli occhi aperti e non russa.
b) Quello che crede di volere tutto, la prima cosa che gli capita davanti e il suo contrario: andare via e restare, ballare e rimanere seduto […]
c) Quello che non sa che cosa vuole e non si disturba a cercare di capirlo. Imita i desideri di chi gli sta vicino oppure sostiene il contrario perché sì, e tutto quello che fa è dettato dall’opinione della maggioranza tra quelli che lo circondano: è conformista senza averci riflettuto o ribelle senza motivo.
d) Quello che sa di volere, sa ciò che vuole e, più o meno, sa anche perché, ma senza energia, è pauroso o debole. Alla fine si ritrova sempre a fare quello che non vuole e rimanda a domani quello che vuole, sperando di essere un po’ più convinto.
e) Quello che vuole con forza, è aggressivo, non si ferma davanti a niente, ma sbaglia nel giudicare la realtà, si lascia depistare completamente e finisce per scambiare per benessere ciò che lo distrugge.
Ciascuno di questi tipi di imbecillità ha bisogno di un bastone, ossia di appoggiarsi a qualcosa d’altro, qualcosa di esterno che non ha nulla a che vedere con la libertà. […]
Ma, per piacere, non confondere l’imbecillità di cui ti parlo con quello che normalmente si dice essere imbecille, ossia essere tonto, non sapere le cose, non capire niente di trigonometria […]. Uno può essere imbecille per la matematica e non per la morale, cioè vivere bene. E vale anche il contrario: certi sono furbi come volpi per gli affari ma perfetti cretini per le questioni di etica! […]
L’esatto contrario di essere moralmente imbecille è avere una coscienza. […]
In che cosa consiste questa coscienza che ci guarisce dall’imbecillità? Fondamentalmente dalle caratteristiche seguenti:
a) essere consapevoli che non è vero che una cosa vale l’altra
b) Essere disposti a stabilire se quello che facciamo corrisponde a quello che veramente vogliamo o no.
c) Sviluppare, con la pratica, il buon gusto morale, in modo tale che certe cose finiscano per provocarci una repulsione spontanea (per esempio, mi farà schifo mentire come in genere ci fa schifo fare la pipì nella minestra che stiamo per metterci nel piatto…).
d) Rinunciare a cercare alibi che nascondano il fatto che siamo liberi e dunque ragionevolmente responsabili delle conseguenze dei nostri atti.
Perché è male quello che chiamiamo cattivo? Perché non consente di di vivere bene come abbiamo detto di volere.”

Ma che cos’è l’etica? Secondo Savater “la specialità dell’etica consiste nell’indagare come vivere bene la vita umana, la vita che si trascorre insieme ad altri esseri umani […] se uno non ha nessuna idea di etica perde o spreca il lato umano della sua vita e anche questo, se devo essere sincero, non è una bella cosa”.

Cercando di capire se è più pericoloso un animale feroce o un altro essere umano scrive: “per quanto gli uomini possano essere simili non si più sapere in anticipo qual è il modo migliore di comportarsi con loro. […]  Proprio perché gli altri uomini mi somigliano molto possono risultare più pericolosi di qualsiasi animale feroce o terremoto. Non c’è peggior nemico di un nemico intelligente. […] Tuttavia questo atteggiamento non è tanto prudente […]: se mi comporto da nemico con i miei simili senza dubbio aumento la possibilità che anche loro diventino miei nemici.”

Sull‘uguaglianza e sul mettersi al posto degli altri: “Senza dubbio noi uomini siamo simili e certamente sarebbe stupendo se arrivassimo a essere tutti uguali (cioè nati con le stesse possibilità e uguali davanti alla legge), ma sicuramente non lo siamo né dobbiamo cercare di diventare identici. Che noia e che razza di tortura generalizzata! Metterti al posto dell’altro è fare uno sforzo di obiettività per vedere le cose come le vede lui, non cacciare l’altro e occupare tu il suo posto… Ossia: lui deve continuare a essere se stesso e tu a essere te stesso. Il primo dei diritti dell’uomo è quello a non essere la fotocopia del vicino, a essere più o meno strani. E non hai diritto di obbligare l’altro a smettere di essere strano per il suo bene, a meno che la sua stranezza non consista nel danneggiare il prossimo in modo lampante….”

Etica e felicità sono collegate, la prima serve per raggiungere la seconda. Ecco come come Savater spiega la felicità: “Il massimo che possiamo ottenere da qualsiasi cosa è la felicità. Tutto quello che ci rende felici è giustificato […] mentre quella che ci allontana senza rimedio dalla felicità è una strada sbagliata.
Che cos’è la felicità? Un sì alla vita che ci scaturisce spontaneo da dentro, a volte quando meno ce lo aspettiamo. Un sì a quello che siamo, o meglio a quello che sentiamo di essere. Chi è contento ha già avuto il premio più grande e non sente la mancanza di nulla; chi non è felice – per quanto sia saggio, bello, sano, ricco, forte e santo – è un miserabile, privo della cosa più importante.”

Savater affronta molti altri argomenti come la giustizia, l’utopia o il piacere. Nell’ultima parte del libro ragiona sul concetto di umanità, che vede come un “progetto comune, un modo di comprendere l’essenza umana a partire dalla sua fondamentale fratellanza. Equivale a qualcosa che potremmo riassumere così: essere umano significa non riuscire a capire se stessi se si trascura e s’ignora il resto dei propri simili. […]
Vivere così non è affatto comodo, soprattutto se vogliamo andare oltre le belle parole. Non c’è nulla di più facile che amare l’Umanità in astratto, specialmente quando si vuole apparire sublimi per fare bella figura: dopo tutto, nessuno di noi incontrerà mai la signora Umanità né sarà costretto a cederle il posto sull’autobus; ma ciò che è veramente difficile è rispettare gli altri esseri umani reali e ancor più se sono strani, se vengono da lontano, se parlano un’altra lingua e hanno altre credenze […]. Rispettare il prossimo che ci somiglia è abbastanza ovvio, perché in certo modo equivale a rispettare noi stessi, visto che siamo come lui: la difficoltà inizia quando dobbiamo accettare il diverso, l’estraneo, lo straniero, l’immigrante. Dopotutto, noi umani siamo animali gregari e pertanto ci piace vivere in gregge, vale a dire, fra coloro che ci assomigliano. […] Ma all’improvviso arriva qualcuno che non appartiene al nostro clan, che ha un odore o un colore diverso, che parla un’altra lingua. Allora, l’animale gregario che è in ognuno di noi si spaventa, incomincia a diffidare, si sente in pericolo, crede di essere invaso. In una parola, ecco che diventiamo aggressivi e pericolosi…”

Fernando Savater (San Sebastián, 1947) è un filosofo, saggista e romanziere spagnolo. Etica per un figlio è stato pubblicato nel 1991, con il titolo originale Ética para Amador. 

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Visita all’ex campo di sterminio di Auschwitz II-Birkenau

5 Febbraio 2019 by federicabertolli Leave a Comment

Fede dietro al filo spinato del campo di sterminio
Baracche nel settore femminile di Birkenau

Seguito del racconto di viaggio agli ex campi di concentramento e sterminio di Auschwitz II-Birkenau.

11 gennaio 2019: BIRKENAU

In polacco Brzezinka, ovvero il paese delle betulle, un terreno paludoso, abitato prima della seconda guerra mondiale da contadini.

Stasera tornando a piedi da Birkenau verso Auschwitz abbiamo trovato un pannello con delle fotografie per strada, tra le vie del paese. Le fotografie mostrano i contadini in partenza dalle proprie abitazioni, sfollate nel 1941. I materiali degli edifici distrutti servirono per costruire parte delle baracche del campo.

La superficie riservata all’intero complesso di Auschwitz-Birkenau ricopriva quaranta chilometri quadrati. Oltre ai tre principali: Auschwitz, Birkenau e Monowitz (dove fu internato Primo Levi), c’erano una cinquantina di campi sussidiari, costruiti dai prigionieri, principalmente nei pressi di miniere, fonderie, stabilimenti industriali e fattorie.

La prima parola che mi viene pensando a Birkenau è: immenso. Ora è tutto ricoperto di neve e si fa fatica a vederne i confini, nonostante il filo spinato (che durante la guerra era a 700 V), e le torri di controllo.

Entrando dalla rampa ferroviaria, che portava i treni direttamente dentro al campo di sterminio si trova un vagone per il bestiame, come quelli usati per i deportati. Chi era sopravvissuto ai viaggi estenuanti da ogni parte d’Europa trovava la morte appena sceso dal treno. La maggior parte delle persone che arrivavano a Birkenau non passava la selezione e andava nella colonna verso la camera a gas.

Alcuni treni arrivavano ancora più avanti, all’ingresso dei forni crematori. Le selezioni erano state fatte prima di partire, erano tutti destinati a essere uccisi appena arrivati.

Il primo forno crematorio fu realizzato nel campo di Auschwitz, ma non era abbastanza efficiente, a Birkenau costruirono i forni più grandi No.2 e No.3 in fondo al campo, e ancora No.4 e No.5 nascosti al confine con il bosco. Ma non bastavano mai, arrivavano migliaia e migliaia ogni giorno, spesso dovevano aspettare di essere uccisi fuori dalle camere a gas. Anche i forni crematori erano affollati e spesso bruciavano i corpi a cielo aperto.

A destra di trovano i settori maschili, con baracche in legno, come quelle delle scuderie per cavalli, ancora come animali. Per le SS erano economiche, veloci da montare e smontare all’occorrenza, come fecero alla fine del 1944, quando iniziò lo smantellamento per distruggere le prove dei crimini commessi.

A sinistra le baracche di mattoni nel settore delle donne. Furono le prime ad essere costruite, dopo optarono per quelle in legno. Le donne erano meno degli uomini: uccise appena arrivate insieme ai propri bambini, con una puntura di fenolo al cuore o gassate e incenerite. Spesso una donna prendeva più bambini e li accompagnava a morire salvando qualche amica, sorella o figlia.

Dall’esterno queste baracche sembrano quasi delle case ma appena entrati si sente la morte con gli occhi e con il cuore. Due file di tavole per dormire e l’ultima direttamente a terra, con un po’ di paglia marcia. Molti avevano la dissenteria e si capisce che chi riusciva a salire in cima al castello era fortunato.

Tra i forni e il bosco c’è un blocco dove chi era scampato alla selezione iniziale veniva spogliato, rasato, tatuato, lavato con un getto di acqua gelata o bollente e vestito, se così si può dire, con una divisa usata “disinfettata” con il vapore e consegnata bagnata. Niente biancheria, calze, cappotto o altro indumento. Da quel momento solo un numero tedesco, vietato farsi chiamare per nome o parlare la propria lingua. I cinquecento bambini, cavie di Josef Mengele, trovati dai russi alla liberazione non sapevano più come si chiamavano, né parlare la propria lingua.

In questo edificio sono esposte le fotografie ritrovate in una valigia sotterrata con i ricordi di persone, famiglie intere, non numeri. Siamo abituati a pensare alle vittime della Shoah (che non si possono contare, dato che chi era selezionato per la camera a gas appena arrivato non veniva neanche registrato), come spettri che camminano, a vedere i volti emaciati, senza capelli, con gli occhi vuoti. In questi pannelli si vedono persone vere, famiglie felici e spensierate, feste, neonati, primi passi, primi bagnetti, uomini in giacca e cravatta, donne con vestiti e cappelli. Tutti andati in fumo.

Proprio in fondo, prima del forno No.3 si trovava la baracca dove Mengele torturava le sue vittime con esperimenti di tutti i tipi, soprattutto su bambini e gemelli. Crudeltà pura, senza limite né anestesia. Anche la mia mamma aveva una gemella, uguale, sarebbero finite qui di sicuro, me lo diceva sempre.

MAI PIÙ: il silenzio dei sopravvissuti

“Sopravvivevano i peggiori, cioè i più adatti; i migliori sono morti tutti”, Primo Levi.

I pochissimi che hanno avuto la fortuna nella sfortuna di essere deportati nell’ultimo periodo prima della liberazione, o quanti avevano una dote o professione utile alle SS, chimico come Primo Levi, illustratore come David Olère, violinista come Helena Dunicz Niwińska, hanno avuto più possibilità di altri di salvarsi. Per questo hanno sofferto tutta la vita per il senso di colpa e la vergogna di essere usciti da quell’inferno, dove avevano visto morire, o semplicemente non visto più, tutti i membri della propria famiglia.

Durante la guerra le case degli ebrei erano state occupate dai vicini, intere famiglie sparite, nessun ricordo, niente di niente. E i pochi sopravvissuti non potevano parlare di quanto avevano vissuto, gli orrori della prigionia e dello sterminio. Chi aveva denunciato, o semplicemente assistito alla deportazione di massa non voleva sapere dove erano andate quelle persone o che cosa fosse accaduto dopo.

In Polonia tutti i ragazzi sono obbligati a visitare questi luoghi almeno una volta. Spero che anche in Italia si arrivi a questa consapevolezza.

Non ci sono parole per descrivere che cosa si vede o raccontare i crimini atroci commessi qui, nel cuore dell’Europa, tra boschi ricoperti di vischio portafortuna. Solo camminando sulla neve ghiacciata, tra filo spinato, rovine dei forni crematori, baracche con file di buchi uno attaccato all’altro per liberarsi dagli escrementi, fosse scavate dai prigionieri e binari che portano alla morte si può sentire le urla delle innumerevoli persone a cui è stata rubata la vita.

………. ………. ……….

Nel precedente post il video della visita al Campo di concentramento di Auschwitz, nel prossimo la partenza e qualche info pratiche su come venire a visitare questi luoghi di orrore e morte. Per non dimenticare di che cosa è capace l’uomo, se guidato da suoi simili senza umanità.

………. ………. ……….

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Il fascino del kimono

21 Novembre 2018 by federicabertolli Leave a Comment

Una ragazza con la parrucca rosa indossa un kimono bianco con decorazione floreale e ombrellino coordinato.
Introduzione al kimono con vestizione, Lucca Comics and Games 2018

Il Giappone mi ha sempre affascinato. Una visione del mondo così lontana da quella occidentale, il contrasto tra voci e sentimenti discreti e raffinati, contro  il rigore e il rispetto assoluto dell’onore. La figura della Geisha e il mondo dei Samurai.

Chi è il Maestro Tomita?

Durante l’ultima edizione dei Lucca Comics and Games sono andata a un incontro con il Maestro Nobuaki Tomita, designer, stilista e creatore di fruscianti kimono, di cui produce la seta e ne inventa i colori.

Tomita Sensei diffonde la cultura del kimono in tutto il mondo, con presentazioni e dimostrazioni per trasmettere la sua passione per un abito che non si indossa solo con con il corpo, ma anche con il cuore.

Ambasciatore della cultura giapponese, ha presentato le sue creazioni in tutto il mondo, iniziando negli anni Novanta, durante degli scambi culturali tra Cina e Giappone.

Attraverso la società Kyokaori, con sede in Giappone, il Maestro Tomita crea kimono e obi (la “cintura” del kimono, la fascia che viene annodata in vita) per uso personale con pezzi originali, ma fornisce anche costumi di scena per il teatro, il cinema e la televisione (alcuni sono stati indossati anche dalle star di Hollywood), oltre a continuare a diffondere la cultura giapponese in conferenze universitarie o altri incontri ufficiali.

Com’è fatto il kimono?

Gli abiti femminili sono composti da almeno 15 parti, ognuna con un nome che la descrive (fodera esterna, interna, sopra e sotto colletto, foro e drappeggio della manica, ecc.).

La vestizione parte dal primo strato, a contatto della pelle (nella dimostrazione le modelle rimanevano vestite), per proseguire con diversi strati man mano che sale la qualità e l’unicità del kimono.

Nella dimostrazione le ragazze venivano fasciate con metri e metri di stoffa, ogni volta che indossavano uno strato pensavo che fosse l’ultimo, invece la vestizione continuava ancora. Anche gli strati intermedi (fodere e sottovesti) sono di tessuto pregiato, con decorazioni e colori raffinati.

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Kimono del Maestro Tomita, stilista e designer di kimono, durante Lucca Comics&Games 2018. Questo è un kimono di una maiko, apprendista geisha. #vestizionekimono @luccacomicsandgames @nobuaki.tomita.555 #giappone #culturagiapponese #kimono #geisha #maiko #welcome2lucca

A post shared by federica bertolli (@federica.bertolli) on Nov 21, 2018 at 12:58pm PST

E quelli di Tomita Sensei?

Sono delle opere d’arte, create in pezzi unici. Stilista, designer e inventore, Tomita ci ha raccontato che in passato i kimono venivano tinti con colori naturali, creati da piante, bacche o altri elementi raccolti in natura. Purtroppo questi colori si stingono facilmente con il lavaggio dell’abito e il passaggio ai colori chimici è stato obbligatorio.

Anche se il Maestro Tomita in occasioni speciali ha decorato dei tessuti con ingredienti particolari come il limoncello di Sorrento, le fragole giapponesi di Tochigi o il cioccolato di Torino per commemorare il 150simo anniversario delle relazioni tra Giappone e Italia.

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Kimono del Maestro Tomita, stilista e designer di kimono, durante Lucca Comics&Games 2018. Questo è un kimono realizzato con il cioccolato di Torino, in occasione del 150simo anniversario delle relazioni tra Giappone e Italia. http://federicabertolli.com/il-fascino-del-kimono #vestizionekimono @luccacomicsandgames @nobuaki.tomita.555 #giappone #culturagiapponese #kimono #geisha #maiko #welcome2lucca #cioccolato #torino

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Quanti tipi di kimono ci sono?

Il kimono è l’abito tradizionale giapponese, maschile e femminile. Si trovano lunghi elenchi di nomi che definiscono diversi tipi di kimono, più o meno pregiati, secondo l’uso e la categoria di persone che li indossavano: formali per donne sposate, abito da visita, con un motivo decorato (che dà il nome al tipo di abito), oppure in tessuto comune per andare alle terme, per praticare arti marziali o l’arte dell’intrattenimento della Geisha.

Il kimono di una Maiko (apprendista Geisha, adolescente tra 15 e 20 anni) è lungo 18-20 metri, il 50% più di un kimono normale, per permettere alla maiko di praticare agevolmente la danza e le altre arti tradizionali.

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Chi erano (o sono) le Geishe?

Non sono prostitute di lusso, come comunemente si tende a pensare.

I due simboli grafici che compongono la parola geisha indicano i concetti di “arte” e “persona“. La figura di una persona che aveva il compito di intrattenere durante incontri ed eventi importanti nasce nel XVII secolo e inizialmente erano uomini, simili ai nostri giullari di corte. Nei secoli a venire le donne hanno soppiantato la figura maschile, per una maggiore inclinazione naturale alla grazia e all’eleganza.

La formazione della geisha iniziava in età infantile e le fanciulle seguivano un severo programma di educazione personale, oltre a imparare a danzare e a suonare diversi strumenti, servire il tè, recitare poesie ed intrattenere i clienti nei tradizionali ristoranti di lusso, chiamati ryotei.

Purtroppo dopo lo sbarco dei soldati statunitensi, durante la seconda guerra mondiale, si è diffusa l’idea distorta della geisha prostituta.

E oggi?

Il kimono rimane l’abito tradizionale, indossato durante cerimonie ed eventi particolari, ma la passione per il rito del kimono e la cultura che emana si è diffusa in tutto il mondo.

Per conoscere meglio il mondo della geisha consiglio il libro di Arthur Golden Memorie di una geisha, da cui è tratto l’omonimo film, diretto da Rob Marshall, vincitore di tre premi Oscar nel 2005 (sceneggiatura, costumi e fotografia), oltre a Storia proibita di una geisha, scritto da Mineko Iwasaki, la ex-geisha, che ispirò Golden per le sue Memorie ma lo denunciò dopo la pubblicazione per diffamazione.

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Un giro a Lucca Comics & Games 2018

1 Novembre 2018 by federicabertolli Leave a Comment

Un fumettista sta disegnando con una penna speciale sul un tablet, collegato al computer
Lucca Comics & Games 2018, stand della Scuola del Fumetto.

Ho visto crescere negli anni questa manifestazione che ha contribuito a far conoscere la nostra piccola città in tutta Europa. Ultimamente venivamo con i bambini a passeggiare sulle mura, a mescolarci con i cosplayer tra le vie di Lucca.

La città si anima di personaggi fantastici e appassionati di tutti i generi, con eventi, appuntamenti, giochi e anteprime che attirano ogni anno sempre più visitatori.

Quest’anno ho deciso di rientrare nei padiglioni di Lucca Comics & Games e ho trovato delle piacevoli sorprese, eccone alcune qui di seguito.

Il buio, la lunga notte graphic novel sul caso Cucchi, edito da Round Robin, editore specializzato in graphic journalism.

A #luccacomicsandgames2018 l’#anteprima del #graphicnovel sul #casocucchi: “Il buio, la lunga notte” #stefanocucchi @RoundRobined #nonchiamatelasoloeditrice #graphicjournalism pic.twitter.com/CRxig8rC4O

— Federica Bertolli (@fedebertolli) 1 novembre 2018

Un altro romanzo a fumetti è …e noi dove eravamo? di Silvia Ziche, Feltrinelli Comics (scoperta oggi!).

Un #graphicnovel di #silviaziche sulla #storiadelledonne, edito da #FeltrinelliComics. #luccacomicsandgames2018 #LuccaCG2018 pic.twitter.com/iGJH7CVHqn

— Federica Bertolli (@fedebertolli) 1 novembre 2018

Salvezza invece è il graphic novel sempre di Feltrinelli Comics, dedicato al caso Aquarius.

Oggi #luccacomicsandgames2018 ho scoperto la #FeltrinelliComics. Ecco #Salvezza sul caso #Aquarius di @Marco_Rizzo e @LelioBonaccorso pic.twitter.com/aIfOB1ouXB

— Federica Bertolli (@fedebertolli) 1 novembre 2018

Un’opera che onora le antiche tradizioni locali è il nuovo volume di “Lucca a fumetti: Misteri e leggende, dedicato alle leggende della Mediavalle & Garfagnana. Ideato da Rugiada Salom Ferretti, edito da Pacini Fazzi Editore – Lucca e creato dallo sceneggiatore Antonio De Rosa ed i fumettisti Pierfrancesco Buonomo, Riccardo Ruggine Pieruccini e Laura Tedeschi.

Vi aspettiamo al nostro stand a Real Collegio durante il Lucca Comics & Games i nostri fumettisti sono pronti a farvi una dedica speciale!

Geplaatst door Lucca a fumetti: Misteri e leggende op Woensdag 31 oktober 2018

 

Nel frattempo i bimbi si divertivano con il Lego nel padiglione Lucca Junior:

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#legocity #legocreator #luccacomics2018 #luccacg18 #luccacomicsandgames @luccacomicsandgames

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Laboratorio “Crea con i mattoncini” 150 kg di mattoncini Lego e Duplo al Padiglione Junior. #luccacomics #luccacg18 #luccacomicsandgames #kids #bambini #family #gioco #creativita @luccacomicsandgames

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Domani vorrei andare a vedere “Introduzione al kimono, con vestizione”, un incontro con il Maestro Tomita, in collaborazione con l’Ambasciata del Giappone.

Greca di chiusura post con sette bambini felici, l'icona di Look Mummy! Felicità assoluta

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Filed Under: Arte, Famiglia, Genitori, Libri, Lucca e dintorni, Mostre, Storia, Toscana, Uncategorized Tagged With: bambini, Famiglia, fumetti, graphic journalism, graphic novel, Lucca, Lucca Comics & Games, Lucca Comics and Games, Mediavalle e Garfagnana

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